domenica 21 dicembre 2008

Auguri.. ma per cosa?

Quest'anno come al solito ho spedito un biglietto di Auguri a tutti i clienti della mia società Commitment.

Il biglietto riproduce questa favolosa foto fatta da Michele Comi sulle Alpi della Valmalenco.

Ma cosa augurare quest'anno? Con le incertezze che caratterizzano questo particolare momento storico, abbiamo scelto un messaggio coraggioso. Sulla foto è stampata una frase di Reinhard Karl, alpinista e scrittore: "Ho portato il mio sul punto più alto e lo lascio lassù, l'Io che voglio essere. Scendo con l'Io che sono". Dietro il biglietto un mio messaggio: "A chi è disposto ad imparare a scendere per poter rislire più in alto è dedicata questa frase. Auguri per un anno di scoperta dei valori veri".

Penso sia la prima volta che qualcuno ha il coraggio di dire ai manager delle aziende che bisogna saper scendere. E' questo l'unico vero insegnamento che ci può arrivare dai tempi di crisi: essere capaci di ritrovare noi stessi e di ripensare alla nostra missione. Essere capaci cdi guardarci con obiettività e di capire chi siamo. Essere capaci di rinnovarci e progettare una scalata che ci porterà più in altro ancora.

E' proprio l'illusione di poter andare sempre su, senza scendere, cha ha portato l'economia e la finanza alla situazione che conosciamo. Ma la vera crescita non è questa. La vera crescita personale, economica, sociale prevede momenti di blocco, di riflessione, di crisi. E' da questi momenti che si riprende l'energia per rilanciare se stessi. Solo a partire da questi momenti si può cambiare veramente. E questo, le persone, lo sanno molto bene. Ecco perché poche ore dopo aver spedito i biglietti mi sono arrivate un sacco di telefonate. Alcuni mi hanno detto che hanno avuto un senso di liberazione (mi hanno parlato anche di commozione), quando lo hanno ricevuto.

Così faccio gli stessi auguri a voi lettori del blog. Che il 2009 vi faccia scoprire e sperimentare i vostri valori veri.


Writing by Diego Agostini/Commitment, All Rights Reserved 

Se qualcuno desiderasse ricevere a casa il biglietto, può mandarmi il suo nome, cognome e indirizzo scrivendo una mail a: diego@diegoagostini.it.

sabato 13 dicembre 2008

Come misurare un errore

Il post dello scudo ha sollevato un giusto quesito: ma perché la colpa deve essere di chi alza lo scudo? Cercherò, per rispondere, di partire da un esempio.

Tempo fa avevo bisogno di un biglietto da visita per un incontro di lavoro. Lo studio grafico su cui solitamente ci appoggiamo ci segnala uno stampatore in grado di lavorare rapidamente. Componiamo il testo, lo inviamo e in un paio di giorni arrivano i biglietti: stampa e consegna di 100 biglietti ci costano 150 euro (costo per lo stampatore: 20 euro ad esagerare). E' un po' tanto, ma per questo servizio siamo disposti a spenderli. Solo che... accidenti, sui biglietti c'è un piccolo errore di stampa. Telefoniamo allo stampatore per segnalare l'errore e questo, un po'seccato, ci dice che non è suo compito leggere ciò che deve stampare, e che l'errore l'abbiamo prodotto noi. Io utilizzo un solo biglietto da visita per l'incontro urgente e poi butto via tutti gli altri.

Commentando l'accaduto con lo studio grafico che ci ha segnalato lo stampatore, mi sento dire: "certo, ha fatto bene, ha ragione: la colpa non era sua ma vostra. Lui non è tenuto a controllare ciò che gli danno da stampare".

Ecco, è esattamente qui dove io non sono d'accordo. Ecco qual è il più comune il parametro utilizzato per misurare l'errore: l'"avere ragione". 

Allora io chiedo al grafico: "ma non si pone il problema, questo stampatore, che il lavoro che ha fatto per il suo cliente (nuovo) non sia utilizzabile? Non si pone il problema che il suo cliente abbia speso 150 euro per un solo biglietto da visita? Non si pone il problema di quanto il cliente sia soddisfatto, indipendentemente da "chi ha ragione"? Non poteva lo stampatore dire "utilizza per ora un solo biglietto, poi ti rifaccio il lavoro con calma e ti spedisco i biglietti nuovi"?

Mi sento rispondere: "No, perché sarebbe stato come ammettere che avevi ragione tu"

Eccoci di nuovo allo stesso punto. Io ragiono in modo completamente diverso. Non me ne importa un bel niente di chi ha ragione. Se dovessi agire con i miei clienti come lo stampatore ha fatto con me tutte le volte che ho ragione io, li avrei già persi tutti. 

Ma allora qual è il parametro dell'errore?

La risposta è semplice: l'effetto prodotto sull'altro. E' questo che io mi chiedo, costantemente. Quando sono con gli altri (qualsiasi altra persona e non solo un cliente, per il quale tuttavia questo discorso vale ancora di più) osservo le sue reazioni al mio comportamento. E mi chiedo: è questa la reazione che volevo? Se la risposta è "no", ho commesso un errore. Anche se ho ragione io. Anzi, non mi chiedo neanche  se ho ragione io. Non mi interessa. Quello che mi interessa è l'effetto che ho prodotto. Se l'effetto è compatibile con le mie attese, ho ragione. Altrimenenti ho torto. Posso fare un lavoro bene, ma se il cliente non è soddisfatto è inutile che gli spieghi che il lavoro l'ho fatto bene. Lui non è soddisfatto. Non mi chiedo se ho ragione, mi chiedo se mi va bene che lui non sia soddisfatto. E la risposta è "no, non mi va bene". Per cui agisco per renderlo soddisfatto. Non mi intressa se poi lui considera questo un mio riconoscimento del torto. Posso sempre, con calma, dargli tutte le spegazioni sull'accaduto.

Insomma, si può evere ragione oggettivamente e sbagliare comunque. Avere ragione è una magra consolazione quando abbiamo sbagliato nell'ottenimento delle reazione che desideravamo nell'altro. Si, perché ne pagheremo le conseguenze.

Un po' di tempo dopo commissiono un nuovo lavoro allo studio grafico e questo ci propone quello stampatore. La mia reazione? "Quello lì no, grazie. Non lavoreremo mai più con lui". Ecco cosa succede a volere avere ragione.

Se useremo l'effetto emotivo prodotto sull'altro come parametro del nostro errore, non ci chiederemo più chi ha ragione e smetteremo di alzare lo scudo. 



Writing by Diego Agostini/Commitment - All Rights Reserved



sabato 6 dicembre 2008

La forza di non usare uno scudo

Negli ultimi tempi mi è capitato più di una volta di lavorare con professionisti... come cliente, partner, committente. Nella totalità dei casi si trattava anche di bravi professionisti. Tuttavia più di una volta li ho visti commettere errori. Slittamento di tempi, informazioni non date, cadute di stile, risultati non rispondenti alle aspettative, errori di comunicazione e relazione... Tutti gli errori che si possono commettere lavorando.

La cosa che mi ha ha meravigliato è la reazione ad ognuno di questi errori. La reazione tipica che mi è capitato di sperimentare è quella di difesa, che descriverò chiamandola "il processo dello scudo". Avviene in cinque passaggi progressivi: 

- primo: negazione. Il problema viene negato, e per questo i fatti vengono distorti per darne un quadro positivo. (“è andato tutto bene”)

- secondo: giustificazione. Se si fanno notare i fatti oggettivi, l’altro trova motivazioni per dimostrarne la correttezza. (“in quel momento andava bene così”)

- terzo: distacco. Se si fanno presenti le conseguenze negative di un'azione, l'interlocutore si dichiara "sereno" facendo intendere che può vivere benissimo anche senza di noi ("sono tranquillo con la coscienza")

- quarto: aggressione. A fronte della nostra insistenza su ciò di cui non siamo contenti, l’altro ci ributta addosso la colpa (“piuttosto è a causa tua che..”)

- quinto: ribaltamento. Forma evoluta di aggressione: l’altro ribalta i ruoli mostrando il suo turbamento e istillando in noi il senso di colpa (“ci rimango male, perché tu…”)

 Queste sono le cinque fasi in cui lo scudo si alza fino a coprire del tutto la persona che lo utilizza.

 Il Fresh Thinking rifiuta tutto questo. Si può vincere con più forza senza scudo. Come?sostituendo la tecnica dello scudo con quella dell'esposizione. Pronunciando le uniche parole che non compaiono qui sopra: “E' vero, ho sbagliato”.

 La dinamica dello scudo si alimenta da sola. La difesa chiama un altro attacco, e questo richiede una difesa più elevata. L'esposizione “E' vero, ho sbagliato” invece rende inutile l’attacco e avvia verso la risoluzione del problema. E’ con questa posizione che si afferma la propria forza, non con lo scudo. E’che non ha bisogno di difendersi, ad essere veramente forte. Per essere forte, riuncia allo scudo e comincia ad esporti.


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